Cuffaro vasa-vasa, vita spericolata tra politica e giustizia

Scritto il 04/11/2025
da agi

AGI - Andarono a prenderlo dopo che aveva finito di pregare in una chiesa romana, in una fredda mattina di gennaio 2011: la sua mesta e rassegnata salita a bordo di un'auto, tra due carabinieri che lo portavano in carcere, sembrava l'epilogo della parabola politica e umana di Salvatore "Totò" Cuffaro, detto vasa-vasa per la sua mania di baciare chiunque gli capiti a tiro. Invece la conferma in Cassazione della condanna a sette anni per favoreggiamento aggravato dall'agevolazione di Cosa nostra, di quella parabola era solo una tappa.

Anche quel giorno Cuffaro fu prelevato dagli uomini del Raggruppamento operativo speciale, gli stessi che oggi sono tornati a indagare sull'ex presidente della Regione siciliana, non più per fatti di mafia, ma per appalti truccati. Eletto nel 2001 per la prima volta governatore, venne confermato nel 2006, fino alle dimissioni del gennaio 2008, quando fu condannato in primo grado. Alla politica è tornato da anni, rivendicando sempre il diritto di farlo, influente alleato del governo di centrodestra e con una robusta delegazione di deputati all'Ars.

La pena scontata e il ritorno alla politica

Cuffaro ha scontato la sua pena, 5 anni e 10 mesi in carcere, perché sui sette che gli erano stati dati aveva ottenuto uno sconto legato alla condotta impeccabile in cella. Pur non ammettendo le proprie responsabilità e limitandosi a sostenere di avere voluto "aiutare un amico", aveva incassato in silenzio la permanenza in prigione, scrivendo due libri per raccontare la propria esperienza.

Nuove indagini e il passato giudiziario

Ora il nome di Cuffaro, sempre chiacchierato dopo la sua riabilitazione giudiziaria e il suo rientro a pieno titolo nel suo vecchio amore, la Dc, torna a far discutere anche nelle aule di giustizia. Oltre vent'anni fa la storia cominciò con un avviso di garanzia emesso nel 2001 per l'ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa: interrogato dai pm coordinati dal procuratore aggiunto Guido Lo Forte, Cuffaro, presidente della Regione in carica, uscì dalle stanze della procura senza perdere la sua fiducia in se stesso.

I mantra e l'inchiesta sfilata

Il suo "ho risposto a tutte le domande" diventò un mantra, come se avesse messo ogni cosa a posto. Come una sorta di mantra divenne poi il suo "la mafia fa schifo". Nel breve volgere di qualche mese, in effetti, le cose sembrarono andare a suo favore: un pm - Gaetano Paci, oggi procuratore a Reggio Emilia - si vide sfilare l'inchiesta dall'allora procuratore, Pietro Grasso, per dissidi sul tipo di reato da ipotizzare.

L'inchiesta aveva infatti virato dal concorso esterno al favoreggiamento aggravato, dal "contesto" al fatto specifico. E il fatto specifico condannò Cuffaro, contro ogni sua aspettativa. Si trattava infatti della rivelazione al boss Giuseppe Guttadauro, chirurgo e capomafia di Roccella, del fatto che in casa sua, in via De Cosmi, nel centro di Palermo, c'era una microspia. Informazione attinta da Cuffaro chissà dove (c'era una misteriosa "fonte romana" di cui non ha voluto mai parlare) e da lui riferita a Mimmo Miceli, assessore comunale nella giunta guidata da Diego Cammarata.

Di lì a poco Guttadauro (fratello del cognato di Matteo Messina Denaro) scoprì e distrusse la cimice che aveva captato tutti i suoi dialoghi compromettenti, diretti a riorganizzare la cosca dopo anni e anni trascorsi in carcere, anche nei rapporti con la politica (e da qui la presenza di Miceli nel suo salotto). La fuga di notizie vanificò l'indagine che era stata aperta e condotta dal Ros.

I coinvolgimenti nell'indagine

Nella vicenda specifica, coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone con i pm Maurizio de Lucia (attuale capo della Dda palermitana), Michele Prestipino e Nino Di Matteo (anche lui poi lasciò per dissidi con gli altri colleghi), furono coinvolti pure due marescialli, Giorgio Riolo e Giuseppe Ciuro. Il primo, in forza al Ros, aveva materialmente messo la microspia; l'altro, finanziere in forza alla Dia, collaborava col pm Antonio Ingroia. Entrambi erano le talpe della Procura, dato il loro rapporto con il magnate della sanità privata, Michele Aiello, che era in rapporti con l'allora latitante Bernardo Provenzano. Tutti e tre furono condannati (Ciuro in un processo abbreviato) come Cuffaro e Miceli (giudicato a parte). Era coinvolto anche un altro carabiniere poi eletto deputato regionale dell'Udc, Antonio Borzacchelli, ma dopo anni e anni fu assolto, al termine di un processo in cui era unico imputato.

La condanna e le dimissioni

In primo grado Cuffaro fu condannato per favoreggiamento non aggravato, a 5 anni: disse che non si sarebbe dimesso, poiché aveva evitato l'accusa di mafia, e un vassoio di cannoli mandato da un amico del suo paese, Raffadali (Agrigento), per "festeggiare", finito sulla sua scrivania dopo la sentenza del tribunale, provocò un'ondata di indignazione nazionale. Pochi giorni dopo (era l'aprile 2008) il governo Prodi si apprestava a defenestrarlo, quando lui stesso si dimise.

L'appello e la pena definitiva

Candidato ed eletto al Senato, subì l'appello della Procura e in appello l'aggravante scattò, cosa che portò ad aumentare la pena a sette anni. E mentre Cuffaro finiva in cella, con la decadenza dalla carica di parlamentare, la procura guidata da Francesco Messineo cercava di ri-contestargli il concorso esterno, col pm Di Matteo: i giudici dissero di no per il ne bis in idem. Sembrava finita così. Sembrava.