La superstar del wrestling che si batteva per Trump

Scritto il 25/07/2025
da Massimiliano Parente

Addio a uno dei lottatori più famosi. Ha portato sul ring muscoli ed edonismo. L'appoggio alla corsa di Donald

La leggenda del wrestling Hulk Hogan è morto all'età di 71 anni, per arresto cardiaco. Nato Terry Gene Bollea, Hogan è stato trovato morto nella sua casa di Clearwater, in Florida. Icona mondiale del wrestling, ha debuttato nel lontano 1977 prolungando la sua carriera fino al 2012.

Da bambino uno dei miei miti era Hulk Hogan. Forse più di Superman, più di Mazinga, più di mio padre (che tanto non aveva i bicipiti, era direttore di banca): lo guardavo urlare in Tv con Dan Peterson che diceva "ohhh mamma mia!" e io ci credevo, al wrestling (gli americani ci credono ancora, boh). Pensavo fosse tutto vero: i pugni, i salti, le sottomissioni, persino quando lo chiudevano nella barella e lui si rialzava come niente fosse. Finché a un certo punto ho scoperto che era tutto finto: coreografie, copione, sangue, sedie spaccate sulla testa, insomma spettacolo. E invece di deludermi, mi ha affascinato ancora di più: perché quella finzione era più vera del vero, e Hulk Hogan era il più finto di tutti, quindi il più autentico.

Hulk Hogan è morto. Il gladiatore del ring, l'uomo che trasformò la muscolatura in una religione e l'urlo in una forma di comunicazione globale, è morto a 71 anni a Clearwater, in Florida, per un arresto cardiaco. La notizia è arrivata come si addice a un'epoca priva di poesia: prima un post su LinkedIn, poi la conferma ufficiale da parte di Amazon (pardon, della Wwe) e infine il circo delle commemorazioni. Tuttavia questa volta con un sottofondo strano, straniante, perché a morire non è stato solo un personaggio, è morta un'epoca.

Hulk Hogan, all'anagrafe Terry Gene Bollea, era nato l'11 agosto 1953 ad Augusta, in Georgia, e diventato davvero Hulk Hogan il 23 dicembre 1979, sul ring del Madison Square Garden. Lì non combatteva solo un uomo, piuttosto con una nuova estetica dell'eroismo: bicipiti d'acciaio, baffoni da sergente in licenza e quella voce cavernosa che urlava ai bambini americani che bastava credere in se stessi e mangiare bene per diventare invincibili. Che voleva dire credere in lui. Avevo anche il suo action figure.

Hulkamania, la chiamarono, e noi nati negli anni Settanta eravamo tutti hulkmaniaci. Nel 2005 entra nella Hall of Fame della Wwe, da cui viene rimosso nel 2015 per insulti razzisti emersi da registrazioni private, salvo essere reintegrato nel 2020 dopo una giravolta di scuse (dal retrogusto vagamente strategico). È il prezzo del culto: prima ti santificano, dopo ti crocifiggono, e in seguito ti riabilitano se fai abbastanza click. In mezzo ci sono reality show imbarazzanti, film dimenticabili, cause legali, un divorzio da 25 milioni di dollari e una carriera che rifiuta di morire. Fino a oggi.

Negli ultimi mesi, Hulk sembrava pronto a un altro round. Aveva fondato la "Real American Freestyle Wrestling Federation" (doveva debuttare il 30 agosto a Cleveland), come se la nostalgia fosse un business eterno, però non è così. Aveva appena fatto un intervento al collo, stava recuperando bene, dicevano. E poi l'arresto cardiaco. Alle 9:51 del mattino i soccorsi sono arrivati, e l'icona non ce l'ha fatta.

Negli ultimi anni non aveva nascosto una certa simpatia per Donald Trump, una posizione che ha diviso, però nel suo caso sembrava più una componente scenica che una vera militanza. Hogan era fedele solo a una cosa: se stesso, o meglio, alla sua rappresentazione di se stesso.

La Wwe lo ha celebrato come "una delle più grandi leggende di tutti i tempi", mentre i milioni di fan, in lutto, si sono riversati sui social come pellegrini digitali in cerca di un ultimo urlo. "Whatcha gonna do, brother?", urlava Hogan mentre scuoteva i polsi prima del leg drop finale.

Ora la risposta è: niente, il fratello non c'è più. Eppure, come ogni mito costruito nel modo giusto, rimarrà ovunque: nelle gif, nelle t-shirt vintage, nei ricordi confusi di chi lo guardava credendo davvero che fosse invincibile.

Hulk Hogan non era un uomo, era una narrazione ipertrofica, un'icona che ha incarnato l'America di Reagan, l'edonismo anni '80, il wrestling quando era ancora una soap opera violenta per bambini cresciuti. Ha venduto forza, sicurezza, follia, immortalità da supermercato. Alla fine, come tutti, ha dovuto cedere alla fragilità dell'unica cosa che non puoi allenare: il cuore. Perché alla fine, nella vita, arriva il momento in cui chiunque crolla. Anche se ti chiami Hulk Hogan.